QUEI
MASOCHISTI DI CHICAGO
L’Hammond
era un nuovo continente, ma per loro erano le Indie. E la prova è
scritta nel manuale
Osservata guardando alle vicende della casa costruttrice, la storia dell’Hammond ricorda quella di Cristoforo Colombo che scopre un nuovo continente e continua a credere d’aver raggiunto le Indie: stessa caparbia miopia. Basta leggere il manuale d’istruzioni che la casa di Chicago forniva con i console (B3, C3, A100 e simili, RT3, D100) alla fine degli anni ’60, per comprendere la siderale incomprensione che ha separato per decenni il produttore dall’utenza. In quegli anni, ogni versante delle possibilità espressive dello strumento era stato in larga misura esplorato. Nel jazz si era ormai alla piena maturità: il sommo Smith aveva chiarito da tempo cosa si può fare con le armoniche sinusoidali e la percussione; decine di organisti avevano esplorato il carattere inconfondibile dell’organo a ruote tonali, sfruttandone a pieno la possanza e le sottigliezze, le rugosità e le capacità di ‘canto’, le velature e gli squilli, la dinamica e le sublimi idiosincrasie. Sotto il profilo del linguaggio strumentale, Smith aveva affrancato l’Hammond da ogni servitù pianistica elaborando una sintassi autonoma; Larry Young, proprio in quegli anni, allargava il territorio oltre il blues e il gospel, conducendo l’organo nella rarefatta selva dell’hard-bop e delle progressioni modali. Nel rock l’Hammond era già una tradizione, almeno doppia: c’erano i ‘tappeti’ blues, r&b e funky con largo uso del leslie, e c’era il prepotente emergere dell’anima psichedelico-barocca dello strumento. Il rotondo timbro epico-liturgico dell’M102 di Matthew Fisher, superba stilizzazione di memorie bachiane, è tra i maggiori responsabili della nostra malattia cronica, non meno delle dita stregate di zio Jimmy (quelle dita tese da un elastico invisibile!). Intanto un certo Emerson, con una band dal nome evocante grazia e modestia – i Nice –, cominciava a parafrasare hammondisticamente l’universo musicale e a farcire la lingua organistica con tensioni, distorsioni, melopee celtiche. Di lì a poco, avrebbe trasformato la pantera felpata dei jazzisti in una lucida tigre. E nel ’69, il B3 di Gregg Rolie a Woodstock alzava il tiro con un lungo solo tutto carne e nervi, mentre Ion Lord affilava le armi. E lasciamo perdere i Creedence, Billy Preston e tutto il resto, comprese le frange come la musica da film o “Je t’aime, moi non plus”.
Ebbene, con tanta grazia in giro, che fa casa Hammond? O meglio, come
concepisce la propria creatura? Come una bene educata doppia tastiera per
famiglie; un prodigioso ritrovato che, grazie all’invenzione della sintesi
armonica continua, può imitare qualsiasi strumento, “assicurando
così anni e anni di soddisfazione musicale”. A chi? Non ai
negroni corrucciati del jazz, tanto meno ai capelloni confusionari del
rock. I destinatari della divertente ‘boîte à musique’ sono
quelli delle illustrazioni che rallegrano il manuale: i papà con
la brillantina Cap Flow, le compite signore in tubino, i sorridenti figlioli.
A Chicago si ritiene di produrre un costoso giocattolo sonoro per le
buone famiglie dell’East Coast. L’Hammond, per Hammond, non è dunque
uno strumento con una propria precisa fisionomia, ma un caleidoscopio di
imitazioni. Duro a dirsi, ma è così: nato clone dell’organo
a canne, diventa presto, per Laurens & C, clone di violini, violoncelli,
trombe, oboi, sezioni d’archi. Soggiogati dal principio della sintesi armonica,
squisitamente organistico ma ampiamente travisato, a Chicago sono innamorati
dell’idea che con i drawbars si possa simulare qualsiasi sonorità.
Idea non del tutto peregrina: è vero, ogni timbro strumentale è
una miscela di armonici che, in reciproca proporzione variabile, si annodano
attorno alla fondamentale. Ma gli armonici necessari per coronare il sogno
di casa Hammond – imitare qualsiasi suono – sono molti, ma molti di più
dei nove che la stessa casa predispone nei propri generatori elettromeccanici.
In qualche caso il gioco riesce: l’oboe ricostruito con l’Hammond sembra
davvero un oboe, dato che l’oboe emette un grappolo di armonici quasi prossimo
alla combinazione di drawbars indicata dalla casa (00 4632 100), con la
terza acuta (1 3/5’) che da sola – anche se presente in misura minima –
qualifica il senso sonoro del bucolico ‘legno’. Anche il clarinetto ha
la sua relativa verosimiglianza, visto che in buona misura il timbro di
clarinetto moderno è caratterizzato dal dodicesimo armonico in quinta
(2 2/3’), più una spolverata di armonici acuti. Ma gli strings sono
quel che sono, si arrampicano sugli specchi: la pretesa di rifare il violino
con 00 4345 554, o con 00 2444 443, più il vibrato su V3, è
un po’ come andare sull’Everest con la felpa delle passeggiate estive in
Abruzzo. Anche trombe e ‘brass ensemble’ sono all’insegna di una certa
pur nobile ostinazione. Per non parlare dell’ovvia assenza dei transitori
d’attacco che qualificano i timbri degli strumenti d’orchestra, dal colpo
di lingua dei fiati alla cavata degli archi. Si dirà: per
l’epoca... No, perché a quell’epoca, fine anni ’60, quando casa
Hammond mandava alle stampe lo stesso manuale d’istruzioni di un decennio
prima, cominciava a farsi sentire il Moog e consentiva – volendo – ben
altre repliche di suoni strumentali. E già esisteva il Mellotron
con i suoi ‘campionamenti’ magnetici. La fissazione di quelli di
Chicago è testimoniata, se ce ne fosse bisogno, dal fatto che tre
quarti di quel manuale sono dedicati a simili tentativi. In molti abbiamo
sorriso dei manuali d’uso che accompagnavano gli organi elettronici di
fattura nipponica: i ‘sayonara-books’, con tutto quel cerimoniale domestico
di papà-san e mamma-san che siedono alla consolle multicolore dello
Yamaha Electone; e con le figurine degli strumenti e degli angioletti che
cantano in coro. Beh, casa Hammond fu la capostipite di siffatta concezione.
Loro la chiamavano “drawbarology”, parola che fa vibrare di passione ogni
hammondista; ma la loro ‘scienza dei drawbars’ non era la scoperta delle
innumerevoli nuances organistiche che si ottengono – e con quale voluttà!
– spostando i cursori armonici anche solo di uno scatto; era l’arte delle
similitudini impossibili.
Prova del nove, il pensiero della casa costruttrice su una delle sue più apprezzate invenzioni: la percussione. Causa ingenuità e ignoranza, ho ammirato per decenni il leonardesco colpo di genio dell’attacco percussivo. Questa gente, pensavo, aveva un tale senso del suono organistico da concepire una simile idea, teoricamente distante le mille miglia dall’estetica del timbro d’organo, eppure così genuinamente organistica (in accezione moderna, ovviamente). La percussione: quel che è mancato, fino al 1955, all’Hammond per essere veramente se stesso. Pensarla in questi termini è invece un errore di valutazione storica: anche in questo caso, sono gli hammondisti che hanno fatto l’Hammond. Per la ditta, la percussione non era la nostra, la graffiante terza armonica su 888 o la dolce, psichedelica e ‘pianistica’ seconda. Per la casa di Chicago, la percussione nasce per surrogare xilofoni e marimbe. A ciò è dedicato l’intero capitolo che il manuale citato assegna alle percussioni, con pagine di settings imitativi e relative immaginette di strumenti così ‘campionati’, inclusi banjo, arpa, celesta, steel guitar, campanello di casa e... l’orologio del nonno, ovvero la pendola! E infatti, non appena fu possibile creare autonomi registri percussivi, Hammond eliminò le classiche tabs in alto a destra e inserì – come nell’X77 – le ‘palette’ con le campane, il vibrafono e simili; salvo poi tornare alle origini tra fine ’70 e primi ’80 (in organi elettronici come il B3000 e il B250), quando le orecchie della ditta cominciarono a dare segni di sensibilità alle voci del mondo. Per gli uomini di Chicago, la percussione nasce per suonare da sola con l’eventuale rinforzo dei drawbars. Per gli hammondisti, la percussione da sola è una curiosità e un caso limite: comunque, anche nel motivetto del Fernet Branca, è ‘la percussione dell’Hammond che suona da sola’ (molto bella, peraltro), non la stentata copia di un vibrafono.
Parecchi anni fa, se non ricordo male nell’84, “Strumenti musicali”
pubblicò un articolo dedicato all’Hammond, già allora – forse
allora più di oggi – considerato un fossile, un interessante oggetto
di modernariato. Mi venne voglia di chiamare l’autore e dargli un appuntamento
per regolare i conti in stile vecchio West (lasciai perdere, data la mia
cronica gracilità di costituzione). Per lui, l’Hammond era un primitivo
antenato dei sintetizzatori. Si dava atto a mr. Laurens d’aver avuto una
bella idea. Certo, nel ’35 non si potevano pretendere gli inviluppi (ma
poi il preistorico scanner si sarebbe mosso nella direzione giusta!) o
la manopola del bender... Però il nucleo concettuale era stato intravisto,
e lodevolmente attuato con i commoventi mezzi dell’elettromeccanica. Come
dire: onore al rozzo ma intelligente pallottoliere, antesignano del computer.
Non una sillaba sulle peculiarità timbriche dello strumento; non
una parola spesa per sottolineare al lettore quanto quel suono fosse unico,
sensuale, difficilmente imitabile. Ora, con qualche nozione storica in
più, ce l’ho di meno con l’incauto redattore: certo non conosceva
l’Hammond, ma le sue opinioni derivavano direttamente dal verbo di Chicago.
Perché tale era l’organo elettromagnetico per i suoi creatori: una
macchina per riprodurre suoni d’ogni genere grazie alla sintesi armonica.
Il manuale Hammond, poi, non si esime dal suggerire combinazioni propriamente
organistiche: lo strumento era pur sempre venuto alla luce per sostituire
in chiesa canne, mantici e somiere. Il modello di riferimento è
in questo caso l’organaria internazionale del ‘900 e quella anglosassone
in particolare, con incursioni nell’organo barocco – cui, per inciso, viene
attribuito un registro di Voce Celeste, che è invece un oscillante
d’epoca romantica –: si suggeriscono imitazioni di registri come Dulciana,
Salicionale, Flagioletto, Quintadena, Eolina, Voce Umana (con tutta probabilità,
visto il suono che esce dal setting indicato nel manuale, la variante ad
ancia), Flauto Tappato... e i Diapason, famiglia timbrica che appartiene
alla celebre classificazione dell’universo drawbarologico secondo casa
Hammond (Foundations o Diapasons, Flutes, Reeds, Strings), ma che il manuale
ripropone – giustamente, peraltro – come ‘organistica’ in senso stretto.
A parte i diapason (per i quali ho un piccolo debole), che effettivamente
evocano le sonorità morbide e rotonde dei fondi d’organo sinfonico,
e salvando le facili repliche dei registri barocchi di ‘spicco’ (come Nazardo
e Cornetto), la maggior parte di quelle voci organistiche soffre di un
grado di improbabilità appena inferiore a quello che affligge pseudo-violini
e pseudo-trombe. Ci vuole fantasia per avvertire somiglianze tra la ‘dulciana’
dell’Hammond e quella di un organo a canne. Anche in questo caso, sfugge
del tutto al costruttore la vera vocazione dello strumento: l’Hammond liturgico
può essere splendido, ma in quanto autonoma stilizzazione o, se
si preferisce, idealizzazione del ‘re degli strumenti’. Suonare Bach su
un A100 può essere emozionante (evitando preludi e fughe, molto
meglio corali e sonate in trio), ma non per la memoria dell’organo classico,
piuttosto perché il timbro organistico rinasce in forme nuove, riplasmate,
oniriche. Se proprio si cercano somiglianze storiche, le sinusoidi dell’Hammond
sono assai più adatte a ricreare l’impasto dell’organo rinascimentale
italiano che non quello degli strumenti tedeschi del ‘700, o degli eclettico-sinfonici
del primo Novecento: 16’ più tutte le ottave fino ad 1’ – meglio
se dosando 8’ e 4’ a livelli contenuti – è quasi un mezzo ripieno
italiano, dolce e brillante.
Se queste considerazioni non bastano, il masochismo di casa Hammond è storicamente sancito dai preset di fabbrica: le combinazioni, preparate sul celebre pannello posteriore con le viti e i fili, con cui gli organi uscivano dalla linea di produzione; e richiamabili, come sappiamo, premendo i tasti a colori invertiti. Esili e smunte voci che molti hanno cambiato. Altri se le sono tenute, un po’ per mania filologica, soprattutto per la pigrizia che assale ogni hammondista sotto l’età pensionabile: occorre molto tempo libero per affrontare l’ardua operazione su quel pannello da radiomarconista. Sta di fatto che il grosso dei cultori dell’Hammond lavora con i quattro preset liberi, due per tastiera, corrispondenti alle quattro serie di drawbars sulla plancia. Al massimo si usano i terzultimi, che somministrano dei quasi-full stop per i finali, o per passaggi suonati con la tecnica dei block chords. Al manuale superiore c’è l’Oboe-horn 8’, leggermente diverso se si sceglieva il setting ‘da teatro’: un bellissimo reed, pensato appunto ad imitazione di un registro tipico del ‘theatre organ’ americano, in realtà efficacissimo come solo liturgico, penetrante e solenne. All’inferiore si salva, per delicati accompagnamenti, la Tibia clausa. Nella versione ‘theatrical’ c’era l’intelligente Novel solo, audace – a paragone con le altre timide miscele – per la stridente presenza di 5 1/3’ con 8’, senza il fondo di 16’ che di norma sostiene la quinta grave; ma al lower manual gli rispondeva un dubbio String accompaniment, che del tappeto d’archi ha a mala pena il tappeto. Il resto è grosso modo da dimenticare, specie nei settaggi ‘standard’, essendo quelli ‘da teatro’ un po’ più brillanti: a paragone col timbro Hammond che abbiamo nelle orecchie, suoni asfittici, piatti, spesso decisamente mediocri. Suoni legati ad un’estetica delle origini, a Fats Waller che sincopa accordi di pianola col Model A. Gli stessi suoni che, a quel punto inamovibili (perché con i circuiti LSI erano sparite le viti e i fili), ritroviamo settati nel B3000, quando la grande parabola dell’Hammond era al crepuscolo, dopo un quarto di secolo di 888.
Certo, non è che a Chicago proprio non si conoscessero i gusti
reali dei musicisti. E infatti, senza dir nulla, il fabbricante operò
i suoi correttivi intorno al ’69-’70, ‘aprendo’ il segnale per accontentare
i tastieristi rock che volevano potenza e squillo. Ma non era quello il
mondo di casa Hammond; e a quel mondo continuarono a guardare con sufficienza,
come a barbari da soddisfare (era pur sempre una bella fetta di mercato),
ma solo per evitare il crollo dell’impero. Niente Vibraharp, niente Cello
per JOS, per Brian e per Keith: il loro Hammond grosso, profondo e lancinante
faceva brodo, eccome. Ma per Chicaco il vero destino dello strumento restò
sempre “the tremendous variety of effects available on the Hammond organ”.
A dar loro retta, dovremmo passare il tempo ad esercitarci con “Aloha oe”
e “Rose del sud”, per scoprire che il B3 (o il C3, o l’A100...) è
una chitarra hawaiiana. Onore a Laurens, inventore di un continente, rimasto
col pensiero sulla via delle Indie. Per fortuna, ci sono stati – e ci sono
– gli hammondisti.
Paolo Veronesi, author